Le aziende e la comunicazione del futuro, tra giochi, robot e ricette

Una delle frasi più ricorrenti da quando stiamo affrontando la pandemia è: “nulla sarà più come prima“. Diciamo questo anche perché ci siamo resi conto, tra necessità di avere una connessione veloce e call su Zoom di quanto la tecnologia sia diventata fondamentale per il nostro lavoro. Per il mondo della comunicazione c’è un passaggio in più, la tecnologia sta lentamente plasmando le modalità di engagement, le potenzialità e i campi di applicazione delle relazioni pubbliche e le frontiere del marketing. E tutto parte da lontano.

 

Di recente il Guardian ha rispolverato e riattualizzato un articolo di qualche mese fa in cui veniva approfondita la tematica della cosiddetta gamification, ossia la pratica (più o meno consapevole) per cui le aziende impostano il lavoro con una modalità simile a quella di un gioco, per rendere le prestazioni più efficienti in maniera volontaria. Si sfrutta insomma la stessa attitudine alla competizione dei lavoratori. L’esempio da cui parte l’articolo è quello di Lyft (il servizio americano simile a Uber) che manda ai suoi driver un elenco settimanale di punteggi e li sfida a realizzare alcuni obiettivi (ad esempio un tot di corse alla settimana) per ricevere premi.

L’articolo è molto lungo e riporta anche le considerazioni sul tema della gamification che nel 1974 già faceva Michael Burawoy all’università di Chicago nei suoi studi sulla Allied Corporation. La domanda da farsi è: è questo il linguaggio più adeguato per motivare il team di un’azienda? Certamente le generazioni più digitali sono abituate a un mondo virtuale, ma la pandemia ha dimostrato anche che il bisogno di partecipazione non può essere soddisfatto solo in digitale.  Il gaming, come il cioccolato, può forse dare un piacere immediato e un senso di soddisfazione, ma chi ha vissuto in un’azienda sa che quello che viene apprezzato di più è il riconoscimento del proprio ruoloall’interno dell’organizzazione e quindi la condivisione delle informazioni e dei risultati. Se il gaming ci porterà a condividere di più le informazioni e a valorizzare le persone allora anche questa tecnologia può giocare un ruolo strategico, se no si scioglierà come il cioccolato.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Ma la tecnologia ci mette di fronte ad altre questioni.  Da curioso e un po’ studioso della comunicazione mi sono imbattuto in una sfida appassionante che peraltro sarà sempre più centrale nel nostro futuro: quella tra la mente umana e i computerSara Robinson, pasticciera occasionale e sviluppatrice di Google Cloud AI, ha infatti proposto una sfida tra l’intelligenza artificiale di Google contro Peter Sawkins, vincitore del reality Great British Bake Off. La sfida era realizzare un dolce a base di Maltesers (un prodotto della Mars, che ha sponsorizzato tutta l’iniziativa, bravi loro). Il motore di ricerca di Mountain View Google ha applicato un modello di machine-learning che va a pescare tra le migliaia di ricette presenti in rete e tra le esperienze comunicate da Google Search Trends.

Al di là di chi ha vinto (spoiler: di fatto nessuno, è questione di gusti e non c’era giuria) è sintomatico che entrambi, macchina e cuoco, abbiano colto il problema di fondo che riguardava il bilanciamento della dolcezza dei Maltesers con qualcosa di salato. Mi sono preoccupato. La risposta alla domanda “chi supporta le aziende nella comunicazione e nel proporre giochi?” poteva essere “lo fa l’intelligenza artificiale“. Aiuto!

(Un supercomputer. Foto: Getty Images)

Niente panico. In realtà sembra che posizione e ruolo di chi come noi fa del problem solving un mestiere siano ancora ben saldi. Questo perché i computer sono in grado di muoversi con agilità solo quando ci sono molti dati a disposizione (come nel caso delle ricette). L’antropologa Mary L. Gray che collabora con l’università di Harvard lo sostiene senza dubbi e senza mezzi termini: ci sono campi nei quali l’IA farà sempre fatica. È il caso, ad esempio, di tematiche come l’inclusività nei confronti della comunità lgbtq+, che sono quelle che per grandi gruppi e grandi manager sono sempre più d’attualità e sempre più al centro delle campagne di comunicazione tradizionali e social. Insomma nel valutare le scelte sulle persone potrebbe essere un grande sbaglio affidarsi solo alle macchine.

Di fronte a un caso singolo, a un imprevisto o a una crisi, non bastano i dati ma ci vuole sensibilità, esperienza e quello che un algoritmo non avrà mai: l’intuito. Chiedetelo a Bottura o a Oldani.

*Articolo originariamente pubblicato su  Wired

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